Anna Frank come
Hello Kitty
in Giappone la Shoah è un manga
di colpo siamo tornati ai "cartoni diseducativi fatti con il computer", all'eccessiva violenza, alla mancanza di morale, alla necessità di edulcorare aspetti culturali troppo lontani da nostri. Insomma, alle censure della Valeri Manera e della Slepoi.
Ci siamo arrivati dopo una spirale di superficialità e di equivoci che non riesco a spiegare: in cima c'è un titolo che sparge un mucchietto di parole ad effetto con l'entusiasmo del venditore che sa di non aver merce di buona qualità. Sotto c'è un editoriale del new york times scritto da un critico letterario giapponese che usa i manga come pretesto per parlare d'altro. Alla fine c'è un lettore, quello italiano, che pur disinteressato alla vicenda tratterrà l'informazione che i manga sono stupidi, servono ad instupidire chi li legge e banalizzare gli argomenti che trattano. Non proprio un capolavoro d'informazione.
Anche per rimediare a questa clamorosa caduta di cui mi sento moralmente responsabile sono andato in fondo alla faccenda. Mi sono letto il testo di Repubblica e quello originale, dove correttamente c'è anche un profilo dell'autore.
Cosa voleva dire Norihiro Kato nel suo editoriale?
Cosa voleva dire Norihiro Kato nel suo editoriale?
Il professore parte da una considerazione personale e da un dato di cronaca
Deciso a non fare i conti con il proprio passato, il Giappone ha fatto proprio il personaggio di Anna Frank, trasformandolo in un simbolo “carino”. A fine febbraio a Tokyo sono state danneggiate centinaia di copie del Diario di Anna Frank.Esistono, ricorda il professore, diverse trasposizioni in manga della vicenda di Anna Frank, che hanno avuto molto successo, e questo dimostrerebbe che
Negli ultimi decenni il Giappone ha messo in atto un meccanismo mirato ad evitare di dover fare i conti con il proprio coinvolgimento nella Seconda guerra mondiale: ha neutralizzato i punti troppo dolorosi attribuendo loro una valenza puramente estetica e innocua - rendendoli “carini”
non solo
Un famoso esempio di questo fenomeno si verificò nel 1988, quando emerse che Hirohito era considerato dalle studentesse “kawaii”, un giudizio che annullava automaticamente il ruolo ricoperto dall’imperatore durante la guerra. “Hello Kitty”, la gattina bianca che indossa un fiocco rosa sull’orecchio,è la massima personificazione della cultura giapponese del“carino”:non ha un passato ed è priva di bocca. Rappresenta l’impulso a fuggire dalla storia e la volontà di smettere di parlarne.E qui non solo la tesi del professore si fa molto personale, ma anche scricchiolante. La carinizzazione è un fenomeno del costume (e del marketing) giapponese. Non certo limitato alle vicende tragiche della seconda guerra mondiale. Gli esempi usati di Hirohito e Hello kitty ci portano poi lontano dal fumetto visto che parliamo di un personaggio storico e di una bambola. Vale la pena ribadire, per chiarire quanto il titolo del giornale sia sbagliato, che Hello Kitty non è un manga, ma un pupazzo creato dall'industria di giocattoli Sanrio.
Tanto per intenderci, la "ruffianeria" della carinizzazione significa usare personaggi dalle forme piacevoli, arrotondate, rassicuranti per suscitare tenerezza e attaccamento in chi guarda
Si può rendere kawaii tutto. Qui Hello Kitty-Guile |
Dire che i manga sono un veicolo di carinizzazione significa scambiare la parte per il tutto. Un po' come dire che il fumetto americano, e le sue rappresentazioni di Reagan e della Barbie, sono il veicolo del desiderio di dominio statunitense (è la prima stronzata che mi è venuta in mente ma è credibile come la tesi del professore e coerente con il suo argomentare).
Un medio conoscitore di anime/manga sa che nell'immensa produzione di fumetti nipponici ci sono autori che l'hanno usata a piene mani, anche per raccontare argomenti drammatici e melodrammatici. Altri invece che l'hanno volutamente avversata cercando di suscitare disgusto e orrore con i loro disegni. Tra i molti esempi possibili: le vicende strazianti di Remi-Senza famiglia sono ingentilite e accentuate dal character design di Sugino e Dezaki, mentre una bella riflessione esistenziale sul Giappone di oggi come Homunculus non ha proprio niente di kawaii
Ci sono più morti in Remi che in un film di Die Hard |
La discutibile interpretazione del mondo iconografico giapponese di Kato poi tocca un nuovo vertice
Qualche anno fa, in un saggio dal titolo “Goodbye Godzilla, Hello Kitty”, ho affermato che Godzilla simboleggia i caduti di guerra giapponesi, tornati tra noi per sfogare la rabbia di essere stati dimenticatiAnche godzilla è diventato kawaii come Anna Frank (vero, ma non è certo una trovata recente), ma il legame di godzilla con i caduti di guerra è un'intuizione originale tutta sua, decisamente poco diffusa
Anna Frank da noi «simbolizza la massima vittima della Seconda guerra mondiale». Lo stesso ruolo che la maggior parte dei giapponesi si attribuisce, a causa delle bombe atomiche. Il Giappone, afferma Lewkowicz, è una vittima ma «mai un carnefice» e ciò che consente ai giapponesi di sentirsi accomunati agli ebrei europei dal ruolo di vittima è la loro strabiliante e diffusissima (in particolare tra i giovani) ignoranzaQui siamo al nocciolo della questione, è un'opinione che trovo discutibile (non sarà che Anna Frank rimane una storia forte in sé tanto da piacere ai giapponesi come decine di altre vicende, reali e di fiction, che arrivano dall'occidente? Tezuka adorava Pinocchio, Miyazaki gli aerei italiani degli anni 30).
Ma Kato conosce la realtà giapponese meglio di me, e gli va dato un minimo di credito, peraltro nello stesso pezzo afferma che "questo meccanismo non funziona più" come dimostra il fatto di cronaca della distruzione dei libri. L'anima fascista del suo popolo si starebbe manifestando nella sua interezza.
L'allarme di Kato non è che i manga banalizzano la shoah, come titolato da Repubblica, ma che l'anestetico della carinizzazione non funziona più dentro la società giapponese. Come questo possa interessare il lettore italiano fino a guadagnarsi un posto in prima pagina sul quotidiano più letto rimane un mistero, e lo dimostra il fatto che il titolo deve urlare qualcosa di comprensibile ai suoi destinatari che non è il cuore dell'editoriale
Poi ci sono gli errori e gli equivoci che derivano dalla pubblicazione in italiano senza prendersi la briga di contestualizzare.
1) non si dice che quello è un editoriale apparso sul New york times e che l'autore non è un giornalista. L'assenza di questi due precisazioni dà allo scritto un'aura di obiettività che non ha e non vuole avere
2) si lascia intendere, come dimostra la gallery sul sito che sia la trasposizione in manga della vicenda di Anna Frank il vero affronto alla persecuzione degli ebrei
3) ultimo e più veniale dei peccati: non considerare che come il Giappone noi siamo i cattivi nella seconda guerra mondiale, e che anche noi, se si dar credito al ragionamento di Kato, abbiamo usato le nostre vittime per sentirci meno carnefici.
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