mercoledì 22 gennaio 2014

Non capisco i bonelliani (e tre), ma hanno ragione loro

Ho ricevuto due obiezioni al mio (doppio) sproloquio sui fan Bonelli e sulla politica editoriale della casa. La prima era prevedibile:
“Non li capisci? Amen, vivi e lascia vivere. Rimani nel tuo mondo colorato e lasciali nel loro grigiore. Visto dall’altro lato sei tu quello che ha scelto il posto sbagliato”.
La seconda è più argomentata:
“Primo. Bonelli è la principale fonte di sostentamento per decine di disegnatori/sceneggiatori italiani e fornisce solide basi alla scuola italiana del fumetto. Anche quello che vive intorno o persino “in contrapposizione” al caro fumetto popolare. Secondo: è sbagliato sostenere che usa male il talento e i vantaggi derivanti dalla sua posizione di leadership, guadagnata — peraltro — grazie al lavoro e al favore del pubblico il modo più onesto e meritocratico che riesca ad immaginare.
Le critiche sui personaggi stereotipati e sulla standardizzazione degli stili dei disegnatori è in gran parte roba del passato. La Bonelli sta cercando nuove vie (Orfani — la collana le Storie) e sfruttando sempre meglio quello che c’è già (Dylan dog). Non necessariamente mantenere i fan più attempati significa non avvicinarsi ai ragazzi delle fumetterie e quelli appassionati di altri generi (anche questi steccati, ben visibili per quelli della tua generazione, sono sempre meno netti)”

Tutto vero, anche se in realtà i due amici sono caduti nella mia piccola trappola. Il movente iniziale del post era esattamente contrario. Tutto nasce dalla constatazione che Julia, ormai al traguardo delle 200 uscite, è diventata da un paio di mesi la collana singola più longeva nella mia libreria. Iniziata per curiosità, non gli darei complessivamente più di una sufficienza. Ci sono state storie irritanti (poche), una ventina ispirate e una massa di episodi memorabili come un bicchiere d’acqua fresca. Eppure, pur non avendo mai sofferto di crisi d’ansia in attesa dell’uscita del numero successivo, ogni mese per più di 15 anni ho versato puntualmente il mio obolo nelle casse della Sergio Bonelli editore.

Di qui il dubbio: il segreto del successo tramandato di padre in figlio, non sarà questa adattabilità ad ogni palato? Rifuggire ogni sapore forte, fare cambiamenti minimi e solo quelli facilmente assimilabili. Modifiche nel gusto e nello stile stemperati e sterilizzati fino a diventare insipidi. I fumetti Bonelli sanno come essere marginali nella vita di tutti noi. È il prezzo che pagano per raggiungere il maggior numero di persone e rimanere attaccati ai loro lettori in tutte le fasi della vita. Ogni mese un brodino caldo, piuttosto che una pietanza da buongustai, sapendo che  fanno più soldi i venditori di dadi nei supermercati che i grandi ristoranti stellati. Io come gli altri ho ceduto a questa sottile strategia di sopravvivenza

Quindi il mio consiglio a chi sta lavorando a preservare e aggiornare l’eredità bonelliana - un consiglio da ignorante rassegnato - e di non esagerare con le rivoluzioni. Essere troppo al passo con i tempi è il miglior modo per passare di moda in fretta.

lunedì 13 gennaio 2014

Non capisco i bonelliani - parte II

Ho avuto l'onore di pranzare con Sergio Bonelli nel 2003. Dieci anni fa mi godevo il mio primo e unico Angouleme con un vero esperto di fumetti: Roberto Davide Papini (qui il suo blog se volete). Bonelli naturalmente conosceva lui, ma devo dire che non fece grosse distinzioni tra il manipolo di appassionati italiani che lo avvicinò dentro e fuori il ristorante.

A quell'epoca avevo letto un paio di dozzine di storie bonelliane al massimo, due-tre forse quelle scritte da lui e la mia opinione sull'editore Bonelli non era cambiata di una virgola rispetto a dieci anni prima. Se la vita fosse un film ora vi dovrei dire che quella fu una "Damasco fumettistica", e che dopo di allora ho capito, recuperato e fatto ammenda per la mia superficialità. Ma la vita (la mia almeno) non è una pellicola, né un romanzo. Bonelli mi conquistò, ovviamente, ma solo come uomo: aveva carisma, era divertente, si rivelò una fucina di aneddoti non necessariamente collegati alla gloriosa storia della sua casa editrice. Furono ore piacevoli, ma ripensarci negli anni successivi ha sempre prodotto la stessa amara considerazione

"Se il ricco mondo di Sergio Bonelli, appena intravisto quel giorno, trasparisse di più nella produzione della Bonelli forse sarei un fan anch'io". Non era e non è così per una precisa scelta: il viaggiatore e storyteller Bonelli era anche dotato di un sano pragmatismo imprenditoriale milanese. Quel buonsenso che non lascia una gallina dalle uova d'oro come Tex finché continua a produrre denaro, o che preferisce costruire a tavolino i propri personaggi (a cominciare da Dylan dog) piuttosto che affidarsi al rischioso estro di uno dei propri artisti. Fu come scoprire che il signor Findus era un gran cuoco e gourmet raffinato, ma questo non bastava a rendere più saporiti i soliti "4 salti in padella " venduti dal supermercato

Tutto ciò che non sopporto del "canone del fumetto popolare italiano" è ancora lì dopo due generazioni abbondanti di Bonelli e migliaia di albi prodotti. Storie nate per intrattenere ragazzi adolescenti in un Italia con un solo canale televisivo (massimo due) con pochi soldi per andare al cinema e senza una produzione letteraria specificatamente pensata per loro. La povertà di mezzi e fonti d'ispirazione è diventata cifra stilistica: personaggi standard (protagonista, spalla del protagonista, macchietta comica, bella ragazza meglio se non fissa) 
Giogo grafico (è la cosa che più mi irrita) per cui i disegnatori devono violentarsi e sembrare tutti uguali, studi di personaggi che partono dagli attori famosi. Ambientazioni sempre mutuate da qualcosa o da qualcuno. Certe regole si saranno pure molto ammorbidite nel corso del tempo, ma per me è ancora un insulto all'arte, perché figlio di una sfiducia sia verso "il mezzo" fumetto sia verso i suoi lettori 

I clichè tanto cari a Tex e compagnia non si vedono più nei veri film dagli anni 60, le serie Tv, i comics americani hanno vissuto tre o quattro rivoluzioni stilistiche negli ultimi trent'anni. Per tacere delle evoluzioni tecnologiche, dell'evoluzione dei modi e dei tempi di godimento dell'entertainement negli ultimi 50 anni. Bonelli è ancora lì aggrappato all'effetto nostalgia, il cyberpunk su Nathan Never sembra ancora una trovata alla Flash gordon e Facebook in un numero di Julia ha il sapore della trovata esotica.

Insomma proprio perché so per certo che Sergio Bonelli era una persona eccezionale, e so per esperienza personale che li dentro ci lavorano decine di disegnatori e sceneggiatori bravissimi e innamorati del mezzo. Non capisco come la più grande azienda fumettisca italiana continui ad essere un altrettanto enorme spreco di potenzialità

venerdì 10 gennaio 2014

Non capisco i bonelliani-- Parte 1

Non capisco i Bonelliani. Ho sempre pensato che i fan delle testate Bonelli fossero una tribù a parte, non conciliabile con il resto del fandom fumettistico italiano.
Una convinzione che ha radici antiche, risale ai primi anni 90,quando le fiere del fumetto erano poche (Lucca ed Expocartoon di Roma) e molto meno frequentate di adesso.
Noi eravamo i barbari, la linfa nuova portati dai manga e dai comics ultracolorati stile Image. Loro erano i “vecchi”, li vedevi porsi ordinati in lunghe file indiane davanti allo stand Bonelli per uno schizzo o una stretta di mano con i disegnatori di turno.
Tanto erano silenziosi, tanto noi rumorosi con le nostre sigle e parodie. I loro eroi vivevano in un bianco e nero statico fatto di personaggi in posa e primi piani, nel nostro mondo tutto era coloratissimo e "animato" di luci fiammeggianti e filtri photoshop (nel peggiore dei casi retinati fino all’inverosimile).

Il bonelliano discettava di tavole, interpretazioni grafiche e riferimenti a oscuri film degli anni 50. Il top delle nostre discussioni era se Ranma avrebbe potuto battere Goku o se (per gli americanofili) Sara Pezzini era più o meno t*****bile di Caitlin Fairchild. Altro spartiacque era il movente per cui ci trovavamo tutti in fiera. La fila e il disegno occupavano tre quarti del loro tempo, qualche chiacchiera, forse uno sguardo agli stand degli antiquari e tutto finiva li.
I giovani neanche li guardavano i fumetti (si trovavano comodamente in fumetteria la settimana dopo, dove i bonelliani non avevano bisogno di entrare). L’occasione unica erano poster, magliette, cd e tutto quanto si poteva importare da Giappone e Stati Uniti.

Vivevamo la passione in modo diverso, i mangofili a malapena sapevano chi fossero Dylan Dog o Nathan Never, altri come Tex, Mister No o Nick raider erano lasciati senza rimpianti a padri, fratelli maggiori e cugini grandi. Ciò che mi dava la sicurezza che non ci saremmo mai mischiati era il modo in cui loro si approcciavamo a fumetti e agli autori. I Bonelliani erano lì a portata: Stano, Casertano, Serra, Roi (tutti nomi che ci dicevano poco), ma non erano oggetto dell’idolatria fanatica di cui eravamo capaci noi per l’unico autore l’anno che cadeva dalle parti di Lucca. Gli altri, mostri sacri come Rumiko Takahashi, Toriyama, Adachi, Otomo, Shirow, Nagai erano a malapena conosciuti via foto, ma trattati come fossero nostri vicini di casa

Eppure per il mondo esterno, i bonelliani erano "gli appassionati di fumetti": quegli albi li trovavi, saltuariamente, anche nelle librerie "dei grandi" e chi li comprava non doveva rassicurare madri e zie sul fatto che non ci fossero perversioni pornografiche o immagini violente e traumatizzanti.

Ma non ci importava. Noi avevamo il fuoco della passione, loro l'aplomb degli "spettatori". E non avevano niente che potessimo invidiare.