lunedì 13 gennaio 2014

Non capisco i bonelliani - parte II

Ho avuto l'onore di pranzare con Sergio Bonelli nel 2003. Dieci anni fa mi godevo il mio primo e unico Angouleme con un vero esperto di fumetti: Roberto Davide Papini (qui il suo blog se volete). Bonelli naturalmente conosceva lui, ma devo dire che non fece grosse distinzioni tra il manipolo di appassionati italiani che lo avvicinò dentro e fuori il ristorante.

A quell'epoca avevo letto un paio di dozzine di storie bonelliane al massimo, due-tre forse quelle scritte da lui e la mia opinione sull'editore Bonelli non era cambiata di una virgola rispetto a dieci anni prima. Se la vita fosse un film ora vi dovrei dire che quella fu una "Damasco fumettistica", e che dopo di allora ho capito, recuperato e fatto ammenda per la mia superficialità. Ma la vita (la mia almeno) non è una pellicola, né un romanzo. Bonelli mi conquistò, ovviamente, ma solo come uomo: aveva carisma, era divertente, si rivelò una fucina di aneddoti non necessariamente collegati alla gloriosa storia della sua casa editrice. Furono ore piacevoli, ma ripensarci negli anni successivi ha sempre prodotto la stessa amara considerazione

"Se il ricco mondo di Sergio Bonelli, appena intravisto quel giorno, trasparisse di più nella produzione della Bonelli forse sarei un fan anch'io". Non era e non è così per una precisa scelta: il viaggiatore e storyteller Bonelli era anche dotato di un sano pragmatismo imprenditoriale milanese. Quel buonsenso che non lascia una gallina dalle uova d'oro come Tex finché continua a produrre denaro, o che preferisce costruire a tavolino i propri personaggi (a cominciare da Dylan dog) piuttosto che affidarsi al rischioso estro di uno dei propri artisti. Fu come scoprire che il signor Findus era un gran cuoco e gourmet raffinato, ma questo non bastava a rendere più saporiti i soliti "4 salti in padella " venduti dal supermercato

Tutto ciò che non sopporto del "canone del fumetto popolare italiano" è ancora lì dopo due generazioni abbondanti di Bonelli e migliaia di albi prodotti. Storie nate per intrattenere ragazzi adolescenti in un Italia con un solo canale televisivo (massimo due) con pochi soldi per andare al cinema e senza una produzione letteraria specificatamente pensata per loro. La povertà di mezzi e fonti d'ispirazione è diventata cifra stilistica: personaggi standard (protagonista, spalla del protagonista, macchietta comica, bella ragazza meglio se non fissa) 
Giogo grafico (è la cosa che più mi irrita) per cui i disegnatori devono violentarsi e sembrare tutti uguali, studi di personaggi che partono dagli attori famosi. Ambientazioni sempre mutuate da qualcosa o da qualcuno. Certe regole si saranno pure molto ammorbidite nel corso del tempo, ma per me è ancora un insulto all'arte, perché figlio di una sfiducia sia verso "il mezzo" fumetto sia verso i suoi lettori 

I clichè tanto cari a Tex e compagnia non si vedono più nei veri film dagli anni 60, le serie Tv, i comics americani hanno vissuto tre o quattro rivoluzioni stilistiche negli ultimi trent'anni. Per tacere delle evoluzioni tecnologiche, dell'evoluzione dei modi e dei tempi di godimento dell'entertainement negli ultimi 50 anni. Bonelli è ancora lì aggrappato all'effetto nostalgia, il cyberpunk su Nathan Never sembra ancora una trovata alla Flash gordon e Facebook in un numero di Julia ha il sapore della trovata esotica.

Insomma proprio perché so per certo che Sergio Bonelli era una persona eccezionale, e so per esperienza personale che li dentro ci lavorano decine di disegnatori e sceneggiatori bravissimi e innamorati del mezzo. Non capisco come la più grande azienda fumettisca italiana continui ad essere un altrettanto enorme spreco di potenzialità

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