sabato 20 dicembre 2014

Non è un anime per vecchi: Sword art online

Ho visto la mia prima serie anime. La prima da quando sono papà e la prima dopo aver compiuto i 40 anni. A  20 anni ero orgogliosamente sicuro che avrei visto cartoni animati fino alla vecchiaia, devo ammettere che affrontare Sword art online invece non è stato semplicissimo:una storia mainstream, passata in televisione, senza nessun legame con i titoli e gli autori che ho visto e amato nel passato. Addirittura l'adattamento di una serie di Light novel (ai miei tempi succedeva il contrario: i romanzi erano sottoprodotti di manga/anime di successo).  Temevo che i miei occhi, la mia sensibilità fossero definitivamente cambiati. Quando vedo i miei figli iptonizzati dalle luci e dai colori delle giostre ricordo cosa si provava, ma ovviamente non posso più tonare indietro.


Beh, mi sono proprio divertito, la prima parte della serie (le 25 puntate sono divise in due parti molto distinte) non mi vergogno a definirla avvincente. Come spesso accade nelle serie ben riuscite, ambientazione e atmosfera contano più della trama che parte da un'idea recente ma già molto sfruttata: i giocatori di un gioco ruolo virtuali si trovano bloccati all'interno del mondo di Sword art on line e quella diventa la loro vita vera. Amori, battaglie, morti, amicizie vengono forgiate nella grande quest di trovare un modo di tornare a casa
Nelle puntate vengono affrontati tutti i topos tipici del "modernissimo" dilemma virtuale/reale. Chi gioca per fuggire dalla realtà, chi indietro non ci vuol proprio tornare, chi scopre di dover maturare in fretta per affrontare le responsabilità nel nuovo mondo. Gli stessi protagonisti Asuna e Kirito sono incredibilmente più adulti quando interpretano il proprio alter ego di quanto non lo siano nella "realtà". Anzi una delle chiavi conclusive della serie è il momento in cui i due ragazzi dimostrano di aver raggiunto la consapevolezza e la stabilità dei loro personaggi virtuali.

 Quello che mi ha stupito di più è riuscire ancora a provare empatia per personaggi così lontani come età e come motivazioni. La serie si fa amare anche da uno sguardo più distaccato e cinico nonostante qualche trama esile (troppi episodi?) e l'inserimento di un triangolo amoroso tra i protagonisti e la sorellastra di Kirito il cui unico scopo è titillare qualche fantasia malata tra gli adolescenti maschi (anche questo stravisto).
Ma la vera domanda che mi ha assillato durante la visione (trascinata per almeno otto mesi e un giorno spiegherò perché non credo nel binge watching): cosa direi ai miei figli di fronte a certe scene di violenza o di ammiccamenti? Per chiarire, nelle ultime puntate della serie c'è una scena che nel "mondo dei grandi" viene definita "pesante molestia sessuale" e subito dopo viene chiarita la differenza tra uccidere in un mondo virtuale e nel mondo reale.
Immagini inquietanti, ma che non mi sento di definire fuori posto. Viste all'età giusta si cresce anche così. Davanti al monitor o seduti sul divano, mi sembra un posto abbastanza sicuro per farsi strappare certe ingenue certezze giovanili
D'altronde a cose del genere noi siamo sopravvissuti

sabato 8 novembre 2014

Da zero a +1 (recensione Dimentica il mio nome)

Dimentica il mio nome è il più bel fumetto finora pubblicato da Zerocalcare. Di certo il migliore dei “lungometraggi” del giovane autore romano. Si ride tanto e ci si commuove un po’. Ingredienti nuovi e graditi sono un bella dose di mistero e qualche bella scena d’azione.  Tra qualche anno qualcuno gli riconoscerà (insieme a Maddox) di aver rinnovato e trasportato nel ventunesimo secolo la gloriosa tradizione delle strip all’italiana. Zero è l’erede di Bonvi, Silver, Enzo Lunari, Angese, Sergio Staino e Disegni&Caviglia (li ho messi secondo il mio personalissimo ordine di grandezza).

Per la capacità di parlare alla propria generazione Zerocalcare può persino aspirare ad Andrea Pazienza, per ora il paragone non è proponibile, anche se proprio questo volume è un passaggio importante verso qualcosa. Quando si passa alla graphic novel  Zero sembra sempre costretto ad adattarsi, come Federer sulla terra rossa. Stavolta la trama mantiene la giusta tensione per le oltre 200 pagine e cresce nel finale. A differenza di Dodici e di un Polpo alla gola il risultato è più solido, in entrambi i precedenti casi la storia di fondo appariva un pretesto per una serie di gag da una-due tavole. Stavolta - aiutato da una serie di fatti “reali” che riguardano la giovinezza di sua madre e sua nonna - lo Zero sceneggiatore sembra alleggerito dalla difficoltà della costruzione di una storia e riesce a concentrarsi sull’effetto finale, la qualità dei dialoghi, sperimenta persino qualcosa dal punto di vista grafico. Meno inquadrature fisse “stile strip” è più vignette in movimento e perfino qualche splash page.

Specie nelle opere lunghe traspare il timore dell'autore non avere qualcosa di “degno” da dire, di apparire troppo leggero. La sua comicità nasce da una severità morale di cui lui è prima vittima. Per quanto il suo amico armadillo continui a gridargli di fottersene, sembra inesorabilmente segnato sia dalla gioventù nei centri sociali in cui tutto è sottoposto a verifiche di conformità politica e “purezza” (vestiario, alimentazione, luoghi di divertimento, generi musicali, film e libri); sia dal presente da star dei social in cui il giudizio del pubblico è continuo e onnipresente (altrettanto spesso ingiustificato). Ormai ha il troll incorporato che deve imparare a domare per fare un ulteriore passo e guadagnare sicurezza nello storytelling

L'indagine sul vero passato della sua famiglia è avvincente, la commistione reale-fantastico permette persino di scomodare Murakami di Kafka sulla spiaggia. E c'é anche una morale per il protagonista e i lettori: il mondo là fuori, l’intreccio del vissuto delle persone, è una cosa enorme, più grande di qualsiasi sistema etico, giuridico, ideologia politica e persino logica-razionale. Sotto sotto Zero ammette che esserne accorto solo a trent’anni è una colpa. Io aggiungo che è una tara generazionale-nazionale di chi ha passato una giovinezza troppo facile e troppo spiaccicata sui divani dei genitori a discettare di cose che sono lì a portata di tv e computer, ma che non si conoscono davvero.

p.s. Naturalmente la cosa più importante è che si ride parecchio. Val la pena ribadirlo dopo tutto sto pippone

giovedì 11 settembre 2014

Demografia e declino degli anime-fan

I Dvd di Goldrake venduti con il Corriere della Sera hanno avuto un effettivo impatto sulle vendite del quotidiano. In poche parole almeno le prime uscite sono da considerarsi un vero successo. Non è la prima volta che gli anime arrivano in edicola, né è nuovo l'abbinamento a testate storiche di grande tiratura (Gazzetta dello sport e Tv sorrisi e canzoni i precedenti illustri). Per la prima volta però l'intera strategia di marketing si è basata sull'effetto nostalgia, persino coinvolgendo la parte redazionale  del giornale che nel mese di agosto ha fatto più di un tributo alla generazione Goldrake.

Tra il 1970 e il 1990 sono nati in Italia 14,6 milioni di persone, i primi avevano 8 anni quando la creatura di Go Nagai apparve sui Rai 2. Possiamo dire che il 100% di questa parte della popolazione ha visto la sua dose di cartoni animati. Non tutti loro sono diventati anime-fan (anzi direi che con questo mercato potenziale i frequentatori di fumetterie e fiere sono anche pochi), ma di certo nessuno di loro vi guarderà in modo strano se parlate di Lupin o Dragonball o i cavalieri dello zodiaco.

Si può giocare in molti modi dentro questo universo, vedere come il quasi monopolio dei robottoni dell'inizio (appena contrastato da maghette e shojo) sia stato superato da un fiorire di generi seguendo di pari passo l'età d'oro dell'animazione nipponica. Sono arrivate le soap, le epopee sportive, la comicità demenziale, gli anime di combattimenti. Quest'ultimi poi hanno stravinto negli anni 90 con i successi di dragonball (arrivato da noi con congruo ritardo rispetto al Giappone), affiancati da una consistente ondata di fantasy come non se ne era mai visti prima
Se parlate con fan di età diverse vi accorgerete di come questa esposizione variegata influisce su gusti e persino temperamento. I più vecchi di solito hanno gusti più hard e vanno in visibilio per fantascienza e mecha design. I figli degli anni 80 sono più romantici, segnati da Lamu, Orange Road, ma anche sensibili alla parodia e alla gag surreale. Gli ultimi invece, i meno interessanti, sembrano risentire della ripetitività di certi schemi che da Pokemon, One Piece e Naruto in poi hanno finito per assimilare le storie a videogame dai continui scontri e power up

Ma non è questo declino "qualitativo" che mi preoccupa, piuttosto la ritirata demografica in corso quell'esposizione devastante e inevitabile ai cartoni giapponesi è fatto del passato. Le sedicenni di adesso sono cresciute con le Winx (in giro da dieci anni ormai), i più giovani scendono a Peppa Pig. Chi ha passato l'infanzia nell'era dei canali per bambini di sky e mediaset ha visto diversi anime, ma le vere novità del periodo sono le serie di Cartoon Network (ora trionfante con adventure time, ma regular show, fantagenitori, leone cane fifone sono ormai delle istituzioni). I loro ricordi d'infanzia saranno inevitabilmente meno nippocentrici

Insomma la Generazione goldrake è già passata e non sembra ce ne sia un'altra a prendere il testimone, il futuro dell'animazione giapponese sembra pronto a tornare nella nicchia

mercoledì 27 agosto 2014

In principio era un problema di Ntsc - 1

Avevo capito di aver lasciato la prima linea degli otaku da qualche parte tra il 2000 e il 2002 per colpa del fenomeno dei fan-sub. La tecnologia stava permettendo a noi appassionati un ulteriore liberazione nella lunga catena che separava gli appassionati dai loro oggetti del desiderio. Ma in quel giro vorticoso di cd rom pieni di anime sottotitolati io arrancavo, mi chiesero di aiutare all'adattamento fatto in casa di Bakuretsu hunter e Slayers facendo un minimo di editing e dovetti rinunciare.

Dieci anni dopo un altro passo verso l'obsolescenza me lo ha fatto fare la parola "simulcast". Ovvero la fantastica novità per cui serie giapponesi di grido come Silver spoon, Space dandy o Sword art on line vengono proposte in contemporanea con la messa in onda originale. Il tutto è gratuito su  popcorn.tv  e vvvvid.it. Per chi bazzica criptando la sua nazionalità ci sono i canali manga di Netflix o Crunchyroll (altra cosa che il vero otaku del mio passato avrebbe fatto). Tutto è veramente disponibile all'istante, adattamento perfetto, sonoro e sottotitoli all'altezza,  un passo enorme rispetto ai bit torrent e alla classica pirateria (che necessitano di parecchio tempo sul computer) e alle fansub su Youtube.

"Troppo facile". Anzichè ringraziare la tecnologia e il popolo mondiale degli otaku che rende possibile persino a un uomo impegnato godersi serie giapponesi praticamente in tempo reale, mi sono lamentato come un vecchio reduce che rimpiange la guerra.

Però è anche giusto almeno lasciare un'effimera testimonianza dei nostri sforzi di allora, di quando la terra degli anime era una meta lontana, non solo per i chilometri ma soprattutto per le montagne di difficoltà pratiche da superare. Ecco dunque questo catalogo semiserio: Posteri leggete, ridete della nostra sfortuna e piangete pensando alla forza del nostro amore.

Questi si baciano ma sono fratelli, e tutto prima che fosse una delle trame più cliccate su youporn


La situazione di partenza: eravamo schiavi di sovrani tutt'altro che illuminati. I network privati o la cara mediaset decidevano cosa vedevamo, quando lo vedevamo, la traduzione, l'adattamento, la sigla e tutto il contorno. Se saltavi una puntata decisiva potevi aspettare anni prima di rivederla. Inoltre i cartoni animati erano dei riempitivi: svariati i casi di serie ripartite dall'inizio in attesa di puntate inedite e interrotte subito, o puntate troncate a metà per lasciare spazio a funerali, parate militari, gare di sci, televendite di pentole (e sto citando solo casi realmente accaduti di cui mi ricordo distintamente l'incazzatura provocata).
Più nota la barbarie degli adattamenti, trame stravolte, sesso e parentele dei personaggi scambiati, finali spariti e rimontati. A volte per ignoranza, a volte per semplice sciatteria. La censura del non farli sembrare "troppo giapponesi" teorizzata dall'allora responsabile Mediaset Alessandra Valeri Manera è ormai consegnata alla letteratura e alla storia dei regimi assolutisti

Cercare un'alternativa significava tempo, denaro e una determinazione degna di miglior causa.
Step 1 Quanto è lontano il Giappone
Il primo passo era procurarsi materiale originale, complice anche un cambio particolarmente sfavorevole ai tempi, era tutto costosissimo a partire da viaggio e soggiorno. Dei pochi che avevano l'occasione di andare nel Sol levante pochissimi erano gli anime fan. Sto parlando di 10-20 corrieri utili l'anno per l'intera penisola e tutti con un budget limitato. Poi visto che i gusti erano simili ma la conoscenza del vasto mondo anime era limitata, gli acquisti erano spesso ripetuti. Gundam e Lupin su tutti. In particolare ricordo di aver visto almeno 4 diversi Gundam F91 che per il periodo (film al cinema, appena uscito, una sola videocassetta, nome di richiamo) rappresentava il souvenir perfetto per l'otaku italiano
Poi c'erano gli importatori, a Milano e Bologna (Yamato e Hammer), i cui cataloghi semestrali erano fotocopiati, passati di mano in mano, imparati a memoria come testi sacri, oggetto di infinite revisioni e liste dei desideri su cui si misuravano povertà di mezzi e  voglia di scoprire.
Nulla mi ha insegnato la continenza negli acquisti come decidere se una cosa era figa solo sulla base di poche righe di descrizione e cercando di predire se tre-quattro mesi dopo, ricevuto il pacco, avrei ancora voluto averla
Forse la mia copia pirata aveva questa illustrazione


Step 2  Il supporto non mi supporta
Le nostre televisioni e videoregistratori erano Pal, le loro Ntsc. Scoperta che molti hanno fatto troppo tardi bestemmiando di fronte a immagini in bianco e nero o schermi tagliati a metà. I negozi di elettronica, prima delle fumetterie, sono stati per me punti d'incontro con altri appassionati, gli unici a chiedere particolari modelli multistandard a commessi ignari e spesso spaventati. I più ricchi di noi tagliavano questo problema comprando i laser disc,già praticamente estinti in Europa, ma pienamente usati in Giappone. Oggetti in sè meravigliosi anche per le illustrazioni di contorno, ma erano ingombranti e di scarsa fruibilità. Ho conosciuto persone nelle fiere che hanno comprato laser disc solo per la copertina, se lo sono appesi in camera senza guardarlo mai. Come certe tribù dell'Amazzonia che venerano le bottiglie vuote di Coca Cola

E comunque gli anime sono gli unici laserdisc che si vendono a prezzi decenti su Ebay



sabato 23 agosto 2014

Manara risponde su Fumettologica, ma la marea è sfavorevole

Tra il sorpreso e il preoccupato, Milo Manara risponde su fumettologica alle critiche per la sua copertina su Spiderwoman. Cito il passaggio che secondo me centra il punto

A meno che non ci sia, di questi tempi, una ipersensibilità verso immagini più o meno erotiche, dovuta a questo confronto continuo che siamo chiamati a fare con l’Islam. Si sa che la censura del corpo della donna non dovrebbe essere una caratteristica nostra, occidentale. È anche questo che mi sorprende abbastanza.
Personalmente mi vengono i brividi quando con leggerezza si discute su cosa  sia "accettabile" nel mondo dei fumetti e in generale su ogni forma di rappresentazione artistica, giornalistica o di qualsiasi altro tipo. Ho sempre pensato che il "pubblico senso della decenza" esistesse proprio per essere messo in discussione. I Fumetti, dagli anni 60 in poi, hanno svolto un bel ruolo in questo senso. Putroppo sempre più spesso proprio dal fronte progressista arrivano divieti e scomuniche internazionali.

Ad esempio Wired recensendo il secondo film di Sin City di Frank Miller  dice
Honestly, it’s probably wrong to expect more—all gratuitous everything is the Rodriguez/Miller brand to the core. Sin City stories aren’t meant to be deep, and aren’t here to be politically correct. That’s fine. A lot of un-PC material can be compelling, but what was compelling when Rodriguez and Miller released their first flick in 2005 gets little more than a re-tread here, and a lot has changed since then. As a cinematic venture, A Dame to Kill For is a perfectly fine Sin City adaptation, but Miller and Rodriguez are releasing this film in a time much different than when its predecessor—let alone its source material—were released. After nine years, it’s a shame they haven’t matured.
Il succo della critica è dunque che il film è bello, ma che un certo approccio - alla sin city appunto - non è più adatto ai tempi odierni, evidentemente più politically correct di quando uscì il primo film e ancor più di quando si pubblicava il fumetto. I palati si son fatti più sofisticati e gli stomaci più deboli.

Una certa quantità di sfide alle certezze e alle consuetidini del lettore/spettatore dovrebbe essere un pregio per un'opera. Scopriamo che non è più così, come dice Manara

devo prendere atto che quella che secondo me è un’immagine bella, piacevole, attraente, seducente – che è esattamente il mio scopo, o quello che vorrei raggiungere – per altri è disturbante. Ma questa è una cosa di cui devo prendere atto ogni volta. E per certi versi mi sorprende sempre di più. 

e noi ci sorprendiamo con lui

venerdì 22 agosto 2014

La mia su Manara-Spiderwoman: quando il MARKETING è dogma

Manara ha fatto questa copertina (variant) per Spiderwoman


Diversi siti anche generalisti (qui e qui) lo hanno criticano perché è sessista e strumentalizza il corpo femminile. Non accetto critiche da quei pulpiti perché so che l'unico criterio di notiziabilità per gli eventi del mondo dei fumetti è se si mostrano innovatori/conservatori rispetto a certi stereotipi (patriottismo, violenza, omessessualità, eroine donna protagoniste/soprammobili). In pratica dei fumetti e dei veri elementi di novità ( autori, tipi di storie, generi che spariscono o vengono riscoperti, evoluzione dell'arte) non gliene frega niente. Direi che da appassionato mi sento in diritto di ricambiare tanta ignorante indifferenza.

Più variegata la posizione degli addetti ai lavori, come la riflessione sul livello di strumentalizzazione nello Showbiz di uno dei siti che seguo di più The Beat o i condivisibili pensieri "a margine" di Recchioni 
Nell'ambiente tutti riconoscono che Manara ha fatto il suo lavoro, in coerenza con quanto finora gli ha fatto guadagnare una fama mondiale, semmai l'errore è della Marvel che ha sbagliato target di autori per il titolo, proprio ora che sta interessando il pubblico femminile e proponendo storie "moderne" (Miss Marvel, il futuro Thor donna)

Ecco questa è la cosa che mi fa letteralmente impazzire! Un artista con 45 anni di carriera, che piace trasversalmente in tre continenti, diventa di colpo un vecchio arnese, superato, impresentabile in certi contesti perché l'ultima strategia di marketing della Marvel/disney sembra aver un buon risultato (per i loro fatturati, s'intende).

E i cosidetti appassionati applaudono, assecondano quella che è la pressione di una parte del pubblico (non so quanto estesa) rispetto al lavoro dell'artista. Tutte le opere sono criticabili, nessuna però è censurabile. Se si cade nella spirale delle "sensibilità da non urtare" non ne usciamo più. Mai più Manara in America, mai più Utatane (disegna ancora?) in Italia, mai più Frank Miller in Medioriente, mai più Terry Moore in certi stati della Bible Belt statunitense. è quello che vogliamo?


mercoledì 2 luglio 2014

Favori ai pedofili e favori ai manga

Manga e pedofilia. Non possiamo nasconderci che il secondo sia un scomodo compagno di viaggio del primo. Etichetta frettolosa e disinformata che i fumetti giapponesi si portano dietro praticamente, tanto pervicace e insinuante tanto che la parola manga è, in qualche contesto, sinonimo di fumetti pornografici.

D'altronde un ventennio di psicologi terrorizzati e di genitori preoccupati non possono essere cancellati solo perché noi, la generazione nata negli anni 70, conta qualcosa. Per fortuna ormai in qualsiasi consesso, pubblico o privato, un sessantenne che se la prende con i cartoni animati diseducativi trova un altro adulto che ribatte come lui sia cresciuto con candy candy e goldrake senza che questo gli abbia sconvolto la vita.

Attenti però a non cadere nell'eccesso opposto come hanno fatto questi anime fan alla CNN che hanno risposto unanimi alla provocatoria domanda “il Giappone vieta la pornografia infantile, allora perché[ i disegni sono ammessi?”
Tutti giustamente compatti nel criticare l'equivalenza tra immagine disegnata e una foto. L'assenza anche nel manga più violento e scabroso della coercizione e della violenza verso una persona reale. L'assurda punizione per la sola detenzione di materiale disegnato che in altre nazioni viene regolarmente venduto e l'ancor più assurda legislazione che lascia l'arbitrio a un giudice la decisione sui singoli in casi in cui la decenza viene superata. Con esiti paradossali, ma non meno reali.

Tutto sacrosanto. Buon costume e legge penale non dovrebbero mai essere accostati, i reati sessuali esistono perché colpiscono le persone che li subiscono non perché offendono la morale comune. La legge deve proteggere le vittime non imporre codici di comportamento, questo è un cardine della civiltà occidentale e liberale. Mi ricordo che quando feci un viaggio in Tunisia nel 1988 c'erano dei malfamati cinema a luci rosse che davano i film di Gloria Guida e Pierino. Immagino che ci fossero della durissime legge conto chi contrabbandava ai minori o fuori da quei ristrettisimi circolo un simile “materiale pornografico”.

In Italia li conosciamo bene certi fondamentalismi, basta pensare a quel capolavoro di disclaimer della Star comics sui suoi albi per cui “tutti i personaggi devono intendersi maggiorenni”.

Detto questo, siamo abbastanza scafati da sapere quanto sia forte l'industria del “titillamento” che si arricchisce producendo tonnellate di ninfette precotte e che non tutto quello che ci vendono è frutto di visione artistiche sincere e/o provocatorie. Specie ora che si fanno serie Tv e videogames con espresso target di 30-40enni e le ragazzine irreali che li popolano non hanno nemmeno più la scusa di favorire l'identificazione degli spettatori. Non credo seriamente che questo crei un incentivo alla pedofilia o anche solo argomenti a chi vuole giustificarla, ma non vendiamo un il fan service come cultura, perché significa dar ragione a ignoranti e moralisti. I manga sono una cosa seria, non una fede.


Mercificazione del corpo e discriminazione verso le donne sono un problema reale e non è una bestemmia ammettere che in Giappone sono un paio di passo indietro rispetto al resto d'occidente. Il ritardo di Tokyo nell'adeguarsi agli standard Onu ne è solo l'ultima dimostrazione. Se poi ci sono anche motivazioni economiche come la difesa delle aziende editoriale del cool Japan il compromesso al ribasso è servito. E se qualcuno pensa che dire questo sia un tradimento, avrà pure letto un miliardo di manga, ma ha sprecato tempo perché non ha capito il messaggio di tolleranza e apertura mentale contenuto nella stragrande maggioranza di essi.

giovedì 19 giugno 2014

Yara, troppa fiction nella realtà

Ciò che più mi disturba della vicenda di Yara Gambirasio è l'eccitazione non detta ma chiaramente percepibile che ci sia una connessione tra "la colpa" che 45 anni fa ha generato due figli fuori dal matrimonio e il fatto uno dei due sia diventato poi un presunto assassino. Razionalmente è un'ipotesi che non regge, nulla del suo passato (probabilmente non ne era neancha direttamente a conoscenza). per chi ha seguito questa storia distrattamente sottolineo che non c'è nessun legame evidente tra le famiglie della vittima e dell'arrestato e men che meno con i fatti accaduti più di 40 anni prima. Eppure questo dettaglio dei figli segreti sembra essere il dato che più accende l'attenzione.

 Eppure è un teorema "troppo affascinante per non essere vero", accessibile sia a chi ci vede i risvolti letterari di una vita nata "squilibrata" da una bugia iniziale, sia in menti più semplici  bisognose di trovare una spiegazione comprensibile di fronte all'orrore. Un misto di retaggio cattolico e cultura popolare trova perfettamente plausibile che "le colpe dei padri ricadano sui figli", se poi queste colpe si chiamano adulterio e omertà diventa una verità autoevidente.

Nel caso qualcuno si stesse domandando perché il vostro umile uomo dei fumetti si lanci in tali divagazioni rientro subito in topic. Se una storia così l'avessi trovata in un romanzo (Ammaniti o, ad altre latitudini, Landsdale) non mi avrebbe fatto impazzire ma me la sarei letta. Azzarello, Lemire o Brubacker avrebbero potuto ambientare una storia simile tra le praterie del midwest piuttosto e lo avrebbero fatto filosofeggiando sul caso/destino e sulla psicologia di un'assassino. E li avrebbe avuto un senso

Invece trasportata nella realtà non mi suscita nessuna emozione, se non la convinzione che nulla vale la brusca fine della vita di una ragazzina. Noi venditori di giornali sappiamo che l'aggettivo "vero" ha un'irresistibile appeal verso i lettori. Funziona più di qualsiasi cosa, anche di notizie che hanno un effettivo impatto sulla nostra vita quotidiana. Ma il vero mistero è perché le persone vogliano sapere che una storia è vera proprio per poterci ricamare sopra particolari inverosimili o mai provati. O peggio ancora traggono morali e insegnamenti che di solito sono solo la conferma dei loro pregiudizi.
Vogliono la verità per evadere da essa. Cioè quello che abbiamo imparato a chiamare Reality.

Di solito si dice che chi legge troppa finzione finisce per far fatica a distinguere reale e inventato. Se vale la testimonianza del sottoscritto - che di certo è all'interno dell'1% della popolazione italiana che più ha macinato film, libri fumetti, serie TV, giochi e persino fiction autoprodotta nei giochi di ruolo - è piuttosto vero il contrario. Più si passa a guardare vite inventate  e più diventa intollerabile che esistenze vere, esseri umani in carne e ossa siano trasformati in macchiette di romanzi truci e insensati

giovedì 15 maggio 2014

Constantine ma con il filtro


Il trailer è bello, la serie sembra ben curata. L'attore credibile (bello l'accento e i capelli eccessivamente ossigenati). Gli effetti speciali e gli indizi sulla storia sembrano voler spingere molto sulla parte magica e lotta demoni/angeli.

Constantine sopravvive alla morte sua e della storica serie regolare di Hellblazer per reincarnarsi in una serie Tv. La vedrò, con diffidenza e timore che diventi meno credibile di "Supernatural". Non posso essere equilibrato su Constantine, troppo cuore e troppi ricordi in ballo. Cogliere un riferimento al fumetto mi farà sorridere e immalinconire, vedere personaggi stravolti (Chas ci sarà?) probabilmente mi farà incazzare e basta.

Mi rendo conto che una serie tv è la cosa migliore che possa capitare ad personaggio in questo momento ( ne riparliamo la prossima stagione televisiva, troppi progetti in ballo perchè riescano tutti), ma se mi fermo a pensare  a quello che veramente mi piaceva di Hellblazer : lo humor nero e osceno dei dialoghi Ennis, il realismo grottesco Dillon, la disillusione di Azzarello, la cattiveria di Warren Ellis sulla mediocrità della media borghesia inglese, e persino la tarda satira politica di Milligan e di quel vecchio punk di Simon Bisley, mi rendo conto che non possono finire in Tv. I tempi sono cambiati, ma non così tanto. Constantine ha fatto storia e ci ha conquistato proprio perché ha percorso strade impossibili per altri.

Certo, ci divertiva anche la magia, la parodia della religione, le altezze e le bassezze che rendono gli umani unici persino in un mondo strapopolato di esseri onnipotenti, ma non sono mai state le cose più importanti. John le ha sempre lasciate volentieri alle fighette innamorate di Sandman :-PP

lunedì 28 aprile 2014

Amazon fuori strada alla prima curva

Il post precedente grondava ottimismo e positività, Amazon ha pensato bene di farmi tornare con i piedi per terra. Il primo annuncio del nuovo padrone di Comixology è a dir poco deludente. Le app su Iphone e Ipad non permettono più di comprare direttamente, sono diventati semplici lettori di materiale che deve essere scaricato dall'account di Comixology su sito. Anche per gli Android c'è qualche difficoltà in più Google play non è più utilizzabile, ma gli acquisti in app sono possibili

Circa il  20% di tutti i telefonini usano il sistema Ios, se si aggiungono gli ipad è facile stimare che almeno un terzo degli acquisti di comic digitali arrivavano dai canali ora chiusi. Tutto gira intorno al numero 30. Infatti la Apple teneva il 30% dei ricavi realizzati in- app. La scommessa dei manager di Amazon si rivelerà vincente solo se in questa migrazione forzata meno di un terzo di questi clienti non si perderà per strada.

Ma anche in quel caso non ci sarebbe niente di cui gioire. L'esperienza dei comics digitali diventa più farraginosa e questo avrà un impatto sulle vendite. Quanti di noi appena finito di leggere un albo, sono passati direttamente allo store per fare qualche acquisto d'impulso, magari il numero successivo nella storyline uscito su una collana diversa? Quanti hanno sfruttato le megasvendite che durano 48 ore?

Tutto questo sarà quasi impossibile, di certo bisognerà passare dal sito, pagare (mentre apple store non chiede ogni volta di reinserire la carta di credito) e poi di nuovo scaricare sull'Ipad. Ogni passaggio sarà un'occasione per ripensarci e lasciar perdere.

Amazon dovrebbe saperlo bene: l'intero sito e tutte le sue procedure e postacquisto sono congegnate in modo da massimizzare il numero di oggetti per momento di acquisto (e quindi vai con recensioni, suggerimenti, liste dei desideri e sconti in bundle, prodotti collegati etc)

Strano che il nuovo acquisto Comixology diventi il banco di prova di una politica opposta, che risulterà ancora più odiosa agli occhi di utenti ormai abituati ad un livello di servizio molto migliore

Per quanto mi riguarda, bloccherò ogni acquisto per qualche mese, tempo "necessario" a riprendermi dalla fatica di dover eliminare la vecchia app, scaricare la nuova e recuperare, tra gli oltre 700 albi acquistati (tutti dallo store di Apple :-PP) quelli ancora da leggere. Operazione che mi fatto perdere un'oretta e che di certo dovrà essere rifatta nei prossimi giorni causa errori.

Gerry Conway, storico sceneggiatore di Spiderman,  ha scritto sul suo blog che la storia del 30% non c'entra niente, perchè come distributore Amazon impone la stessa quota di Apple. La scelta deriverebbe dalla volonta del patron Jeff Bezos di spingere le vendite di Kindle rispetto agli iPad. Anche questa teoria ha dei punti deboli visto che dai bilanci di Amazon emerge chiaro che l'hardware kindle è venduto in perdita per aumentare le vendite di contenuti dallo store, cioè libri e fumetti.

Quale che sia la motivazione vera, il più bel negozio di fumetti del mondo ha chiuso un po' troppe vetrine e perso parecchie luci. Spero in un ripensamento

lunedì 14 aprile 2014

Comixology diventa grande

Si viene a creare una nuova interessante simmetria ora che Comixology è stata comprata da Amazon. Marvel alla Disney, Dc alla Warner e ora il più grande distributore digitale finisce nelle grinfie del più grande venditore on line. I fumetti giocano nella serie A dello show business. D’altronde, guardando l’operazione con occhio distaccato, si nota che il quasi monopolio dei comics digitali domina da diversi mesi l’Apple store nella classifica delle app più remunerative. Considerando la concorrenza dei grandi gruppi di videogames, delle aziende editoriali classiche e delle software house, questo è un risultato di assoluto valore.

Ma naturalmente l’attenzione è tutta concentrata sugli effetti per il nostro piccolo mondo di uomini in calzamaglia e mondi paralleli. Il successo di Comixology è frutto di una tecnologia che funziona (personalmente ho più di mille comics comprati in circa tre anni e mai sperimentato un solo problema tecnico), una politica di prezzi molto aggressiva e un catalogo sterminato.

Solo la prima caratteristica è merito della società . Le altre due sono invece figlie delle politiche degli editori che, quasi all’unisono e senza ripensamenti, hanno deciso di spingere le vendite delle versioni digitali dei loro fumetti: uscite in contemporanea, edizioni “only digital” e clamorose vendite in saldo di materiale d’archivio. Pensate che rivoluzione l'accesso immediato a 99 centesimi per comic book si vendevano a decine (se non centinaia) di dollari nei negozi o nelle aste on line. Senza contare il tempo risparmiato nella ricerca di tutti i numeri di una miniserie o delle prime opere di un disegnatore, senza temere che diventino irreperibili.

I miei datori di lavoro, gli editori di giornali, continuano a chiedersi da un decennio quanto investire su Internet e quanto la rete “cannibalizzi” il prodotto cartaceo. Nessuno di loro ha prodotto un modello credibile, e il settore non brilla per collaborazione e scelte condivise. Invece nel loro piccolo i comics publisher hanno scelto una piattaforma unitaria e investito pesantemente su di essa. Il loro segreto? Coraggio e calcolo.

Il fatto che Comixology fosse un’emanazione del distributore principale per le fumetterie, la Diamonds, ha fatto sì che tutti si sentissero garantiti. Gli editori non temevano che il distributore li schiacciasse forte di un equilibrio consolidato sulle distribuzioni cartacee. Le fumetterie hanno, seppur con qualche remora, confidato che il venditore digitale non avrebbe penalizzato la principale fonte di ricavo di Diamonds che rimane la distribuzione tradizionale.

Ha funzionato, Comixology vale poco meno del 20% delle vendite mensili, in una torta che è cresciuta in questi anni. Pur senza dati ufficiali e certificati, gli addetti del settore sottolineano che le vendite internazionali e quelle in aree poco servite dalla rete delle fumetterie a godere del servizio digitale. In pratica la sovrapposizione sarebbe minima e tutti sono contenti.

Con l’avvento di Amazon però le fumetterie hanno capito di doversi preoccupare un po’ di più visto che il nuovo padrone ha interesse a vendere solo on line e ha già con successo decimato le librerie tradizionali. D'altrocanto le fumetterie da tempo si stanno emancipando dalla vendita dei comic book (affare rischiosissimo per via dei margini risicati e della difficoltà di ordinare sempre la quantità giusta di ogni testata). Action figures, magliette, videogames, edizioni di lusso, poster. Le iniziative che tengono unita la comunità locale dei fumettari stanno diventando il vero motivo di esistenza dei negozi. Amazon ci sta facendo fare un passo in più verso un mondo in cui i fumetti ce li scaricheremo sull'Ipad e poi ne andremo a parlare di persona in fumetteria. Cioè l'esatto contrario del mondo attuale, non necessariamente peggiore

mercoledì 9 aprile 2014

Onda lunga Image, un premio per chi cambia rotta

Gli ultimi dati sulle vendite dei comics nel mese di marzo, segnano un paio di novità interessanti. Image non solo si conferma la terza forza del mercato, ma fa il miglior risultato da 15 anni a questa parte. Dati ancor più lusinghieri se si pensa che "Big I" domina nei paperback grazie a titoli come Walking Dead e Saga. In cinque anni ha praticamente raddoppiato il peso in una torta che peraltro è cresciuta

Il mercato Usa sembra entrato in una fase di ripiegamento molto importante, è probabile che si ripeta, su numeri più alti, il ciclo del decennio scorso. Lo sforzo produttivo, creativo e di marketing degli ultimi tre anni (I film Marvel, il reboot dell'universo Dc) hanno in qualche modo testato i limiti strutturali del mondo delle fumetterie americane e aperto nel miglior modo il mercato digitale. Ora inevitabilemente si tira il fiato. Molto è stato costruito: oltre all'ottima salute delle due grandi editrici, un gruppetto di aziende medie hanno costruito delle realtà solide. Dark Horse, Dinamite, Idw sono in grado di prendersi licenze importanti e coinvolgere autori di primo piano. Sono alternative vere e aumentano la quantità complessiva di creatività "in circolo". Un salto di qualità che ha rivoluzionato il fronte delle entrate prodotto dalle trasposizioni cinematografiche e televisive.  La crescita esponenziale di "esportazioni" dal fumetto agli altri media e meno importante del fatto che Marvel, Dc e le altre siano nella parte alta della catena di produzione tenendo il pieno controllo dei progetti (fIlm, videogiochi e serie tv).

Proprio in questo senso il premio all'Image da parte dei lettori è anche poco rispetto al valore del suo ruolo nell'industria. Eric Stephenson è considerato il miglior editor del settore, nella sua gestione dal 2008 ha dimostrato di avere senso degli affari e sensibilità artistica, uno in grado di lasciare un segno, quasi ai livelli di Karen Berger. Ha un roster di autori/disegnatori paragonabile a quello delle due megapotenze. Paga meno e vende meno, ma permette agli autori maggiore libertà e totale controllo sulle loro creazioni, così non solo è un'ottima rampa di lancio per artisti che si vogliono mettere in mostra (Bendis, Kirkman, Hickman, Fraction) per citare solo l'ultimissima infornata, ma è anche un punto di riferimento per quelli che si vogliono prendere una pausa dagli obblighi derivanti dalla fama raggiunta (millar, J. Michael Straczynski, Vaughan). Un'opera di rigenerazione dello stock di talento complessivo che nessuno è in grado di replicare come dimostra la distruzione della Homage perpetrata dalla Dc e il vivacchiare della Icon da parte della Marvel, cioè le etichette che dovrebbero togliere spazio alla Image.

Difficile dire perché la Image, nonostante le mille vicissitudini, sia riuscita dove gli altri hanno fallito. Li seguo dall'inizio e la mia opinione è che c'è una sorta di dna originario che si è affinato nel corso degli anni in una strana eterogenesi dei fini. Quando i fondatori Jim Lee, Todd Mcfarlane, Jim Valentino, Erick Larsen, Rob Liebfield e Whilce Portacio lasciarono la Marvel pensavano a se stessi come degli imprenditori in grado di ripercorrere le orme di Stan Lee. Fallendo però hanno costruito qualcosa di meglio.  Volevano nelle loro tasche una quota maggiore dei profitti generati dalla loro creazione e si ribellarono ai contratti capestro della Marvel. E' probabilmente vera l'accusa che la loro fu una fuga dettata più dall'avidità che dalla voglia di libertà espressiva, ma erano e restano dei disegnatori di fumetti e l'idea di sfruttamento commerciale che può avere un artista (più o meno dotato) sarà sempre più rispettosa della materia prima ( i fumetti) di quella  di un qualsiasi manager.
Infatti la storia delle Big two è piena di scelte sbagliate e strategie folli proprio nel momento in cui gli affari vanno male o i lettori perdono interesse. Le grandi aziende sanno che a volte una rapida strada verso la liquidazione è il miglior modo per superare una crisi. Alla Image, naufragati i sogni di gloria, da una decina di anni si sono rimessi a fare fumetti, provando molto, sfruttando quello che vende e sapendo che bisogna contemporaneamente cercare già il fenomeno successivo. Funziona, per loro e per altri.
J. Michael Straczynski
J. Michael Straczynski
J. Michael Straczynski
J. Michael Straczynski
. Michael Straczynski
. Michael Straczynski
. Michael Straczynski

venerdì 21 marzo 2014

Anna Frank, le colpe dei giapponesi e quelle di Repubblica

Sono stato rispedito indietro di 20 anni leggendo in prima pagina del mio giornale

Anna Frank come 

Hello Kitty 

in Giappone la Shoah è un manga


di colpo siamo tornati ai "cartoni diseducativi fatti con il computer", all'eccessiva violenza, alla mancanza di morale, alla necessità di edulcorare aspetti culturali troppo lontani da nostri. Insomma, alle censure della Valeri Manera e della Slepoi. 

Ci siamo arrivati dopo una spirale di superficialità e di equivoci che non riesco a spiegare: in cima c'è un titolo che sparge un mucchietto di parole ad effetto con l'entusiasmo del venditore che sa di non aver merce di buona qualità. Sotto c'è un editoriale del new york times scritto da un critico letterario giapponese che usa i manga come pretesto per parlare d'altro. Alla fine c'è un lettore, quello italiano, che pur disinteressato alla vicenda tratterrà l'informazione che i manga sono stupidi, servono ad instupidire chi li legge e banalizzare gli argomenti che trattano. Non proprio un capolavoro d'informazione. 

Anche per rimediare a questa clamorosa caduta di cui mi sento moralmente responsabile sono andato in fondo alla faccenda. Mi sono letto il testo di Repubblica e quello originale, dove correttamente c'è anche un profilo dell'autore.
Cosa voleva dire Norihiro Kato nel suo editoriale? 

Il professore parte da una considerazione personale e da un dato di cronaca 
Deciso a non fare i conti con il proprio passato, il Giappone ha fatto proprio il personaggio di Anna Frank, trasformandolo in un simbolo “carino”. A fine febbraio a Tokyo sono state danneggiate centinaia di copie del Diario di Anna Frank.
Esistono, ricorda il professore, diverse trasposizioni in manga della vicenda di Anna Frank, che hanno avuto molto successo, e questo dimostrerebbe che

Negli ultimi decenni il Giappone ha messo in atto un meccanismo mirato ad evitare di dover fare i conti con il proprio coinvolgimento nella Seconda guerra mondiale: ha neutralizzato i punti troppo dolorosi attribuendo loro una valenza puramente estetica e innocua - rendendoli “carini”

non solo
Un famoso esempio di questo fenomeno si verificò nel 1988, quando emerse che Hirohito era considerato dalle studentesse “kawaii”, un giudizio che annullava automaticamente il ruolo ricoperto dall’imperatore durante la guerra. “Hello Kitty”, la gattina bianca che indossa un fiocco rosa sull’orecchio,è la massima personificazione della cultura giapponese del“carino”:non ha un passato ed è priva di bocca. Rappresenta l’impulso a fuggire dalla storia e la volontà di smettere di parlarne. 
E qui non solo la tesi del professore si fa molto personale, ma anche scricchiolante. La carinizzazione è un fenomeno del costume (e del marketing) giapponese. Non certo limitato alle vicende tragiche della seconda guerra mondiale. Gli esempi usati di Hirohito e Hello kitty ci portano poi lontano dal fumetto visto che parliamo di un personaggio storico e di una bambola. Vale la pena ribadire, per chiarire quanto il titolo del giornale sia sbagliato, che Hello Kitty non è un manga, ma un pupazzo creato dall'industria di giocattoli Sanrio.

 Tanto per intenderci, la "ruffianeria" della carinizzazione significa usare personaggi dalle forme piacevoli, arrotondate, rassicuranti per suscitare tenerezza e attaccamento in chi guarda
Si può rendere kawaii tutto. Qui Hello Kitty-Guile

Dire che i manga sono un veicolo di carinizzazione significa scambiare la parte per il tutto. Un po' come dire che il fumetto americano, e le sue rappresentazioni di Reagan e della Barbie, sono il veicolo del desiderio di dominio statunitense (è la prima stronzata che mi è venuta in mente ma è credibile come la tesi del professore e coerente con il suo argomentare).


Un medio conoscitore di anime/manga sa che nell'immensa produzione di fumetti nipponici ci sono autori che l'hanno usata a piene mani, anche per raccontare argomenti drammatici e melodrammatici. Altri invece che l'hanno volutamente avversata cercando di suscitare disgusto e orrore con i loro disegni. Tra i molti esempi possibili: le vicende strazianti di Remi-Senza famiglia sono ingentilite e accentuate dal character design di Sugino e Dezaki, mentre una bella riflessione esistenziale sul Giappone di oggi come Homunculus non ha proprio niente di kawaii

Ci sono più morti in Remi che in un film di Die Hard






La discutibile interpretazione del mondo iconografico giapponese di Kato poi tocca un nuovo vertice
Qualche anno fa, in un saggio dal titolo “Goodbye Godzilla, Hello Kitty”, ho affermato che Godzilla simboleggia i caduti di guerra giapponesi, tornati tra noi per sfogare la rabbia di essere stati dimenticati
Anche godzilla è diventato kawaii come Anna Frank  (vero, ma non è certo una trovata recente), ma il legame di godzilla con i caduti di guerra è un'intuizione originale tutta sua, decisamente poco diffusa


Anna Frank da noi «simbolizza la massima vittima della Seconda guerra mondiale». Lo stesso ruolo che la maggior parte dei giapponesi si attribuisce, a causa delle bombe atomiche. Il Giappone, afferma Lewkowicz, è una vittima ma «mai un carnefice» e ciò che consente ai giapponesi di sentirsi accomunati agli ebrei europei dal ruolo di vittima è la loro strabiliante e diffusissima (in particolare tra i giovani) ignoranza
Qui siamo al nocciolo della questione, è un'opinione che trovo discutibile (non sarà che Anna Frank rimane una storia forte in sé tanto da piacere ai giapponesi come decine di altre vicende, reali e di fiction, che arrivano dall'occidente? Tezuka adorava Pinocchio,  Miyazaki gli aerei italiani degli anni 30).
Ma Kato conosce la realtà giapponese meglio di me,  e gli va dato un minimo di credito, peraltro nello stesso pezzo  afferma che "questo meccanismo non funziona più" come dimostra il fatto di cronaca della distruzione dei libri. L'anima fascista del suo popolo si starebbe manifestando nella sua interezza.

L'allarme di Kato non è che i manga banalizzano la shoah, come titolato da Repubblica, ma che l'anestetico della carinizzazione non funziona più dentro la società giapponese. Come questo possa interessare il lettore italiano fino a guadagnarsi un posto in prima pagina sul quotidiano più letto rimane un mistero, e lo dimostra il fatto che il titolo deve urlare qualcosa di comprensibile ai suoi destinatari che non è il cuore dell'editoriale

Poi ci sono gli errori e gli equivoci che derivano dalla pubblicazione in italiano senza prendersi la briga di contestualizzare.
1) non si dice che quello è un editoriale apparso sul New york times e che l'autore non è un giornalista. L'assenza di questi due precisazioni dà allo scritto un'aura di obiettività che non ha e non vuole avere

2) si lascia intendere, come dimostra la gallery sul sito  che sia la trasposizione in manga della vicenda di Anna Frank il vero affronto alla persecuzione degli ebrei

3) ultimo e più veniale dei peccati: non considerare che come il Giappone noi siamo i cattivi nella seconda guerra mondiale, e che anche noi, se si dar credito al ragionamento di Kato, abbiamo usato le nostre vittime per sentirci meno carnefici.

mercoledì 22 gennaio 2014

Non capisco i bonelliani (e tre), ma hanno ragione loro

Ho ricevuto due obiezioni al mio (doppio) sproloquio sui fan Bonelli e sulla politica editoriale della casa. La prima era prevedibile:
“Non li capisci? Amen, vivi e lascia vivere. Rimani nel tuo mondo colorato e lasciali nel loro grigiore. Visto dall’altro lato sei tu quello che ha scelto il posto sbagliato”.
La seconda è più argomentata:
“Primo. Bonelli è la principale fonte di sostentamento per decine di disegnatori/sceneggiatori italiani e fornisce solide basi alla scuola italiana del fumetto. Anche quello che vive intorno o persino “in contrapposizione” al caro fumetto popolare. Secondo: è sbagliato sostenere che usa male il talento e i vantaggi derivanti dalla sua posizione di leadership, guadagnata — peraltro — grazie al lavoro e al favore del pubblico il modo più onesto e meritocratico che riesca ad immaginare.
Le critiche sui personaggi stereotipati e sulla standardizzazione degli stili dei disegnatori è in gran parte roba del passato. La Bonelli sta cercando nuove vie (Orfani — la collana le Storie) e sfruttando sempre meglio quello che c’è già (Dylan dog). Non necessariamente mantenere i fan più attempati significa non avvicinarsi ai ragazzi delle fumetterie e quelli appassionati di altri generi (anche questi steccati, ben visibili per quelli della tua generazione, sono sempre meno netti)”

Tutto vero, anche se in realtà i due amici sono caduti nella mia piccola trappola. Il movente iniziale del post era esattamente contrario. Tutto nasce dalla constatazione che Julia, ormai al traguardo delle 200 uscite, è diventata da un paio di mesi la collana singola più longeva nella mia libreria. Iniziata per curiosità, non gli darei complessivamente più di una sufficienza. Ci sono state storie irritanti (poche), una ventina ispirate e una massa di episodi memorabili come un bicchiere d’acqua fresca. Eppure, pur non avendo mai sofferto di crisi d’ansia in attesa dell’uscita del numero successivo, ogni mese per più di 15 anni ho versato puntualmente il mio obolo nelle casse della Sergio Bonelli editore.

Di qui il dubbio: il segreto del successo tramandato di padre in figlio, non sarà questa adattabilità ad ogni palato? Rifuggire ogni sapore forte, fare cambiamenti minimi e solo quelli facilmente assimilabili. Modifiche nel gusto e nello stile stemperati e sterilizzati fino a diventare insipidi. I fumetti Bonelli sanno come essere marginali nella vita di tutti noi. È il prezzo che pagano per raggiungere il maggior numero di persone e rimanere attaccati ai loro lettori in tutte le fasi della vita. Ogni mese un brodino caldo, piuttosto che una pietanza da buongustai, sapendo che  fanno più soldi i venditori di dadi nei supermercati che i grandi ristoranti stellati. Io come gli altri ho ceduto a questa sottile strategia di sopravvivenza

Quindi il mio consiglio a chi sta lavorando a preservare e aggiornare l’eredità bonelliana - un consiglio da ignorante rassegnato - e di non esagerare con le rivoluzioni. Essere troppo al passo con i tempi è il miglior modo per passare di moda in fretta.

lunedì 13 gennaio 2014

Non capisco i bonelliani - parte II

Ho avuto l'onore di pranzare con Sergio Bonelli nel 2003. Dieci anni fa mi godevo il mio primo e unico Angouleme con un vero esperto di fumetti: Roberto Davide Papini (qui il suo blog se volete). Bonelli naturalmente conosceva lui, ma devo dire che non fece grosse distinzioni tra il manipolo di appassionati italiani che lo avvicinò dentro e fuori il ristorante.

A quell'epoca avevo letto un paio di dozzine di storie bonelliane al massimo, due-tre forse quelle scritte da lui e la mia opinione sull'editore Bonelli non era cambiata di una virgola rispetto a dieci anni prima. Se la vita fosse un film ora vi dovrei dire che quella fu una "Damasco fumettistica", e che dopo di allora ho capito, recuperato e fatto ammenda per la mia superficialità. Ma la vita (la mia almeno) non è una pellicola, né un romanzo. Bonelli mi conquistò, ovviamente, ma solo come uomo: aveva carisma, era divertente, si rivelò una fucina di aneddoti non necessariamente collegati alla gloriosa storia della sua casa editrice. Furono ore piacevoli, ma ripensarci negli anni successivi ha sempre prodotto la stessa amara considerazione

"Se il ricco mondo di Sergio Bonelli, appena intravisto quel giorno, trasparisse di più nella produzione della Bonelli forse sarei un fan anch'io". Non era e non è così per una precisa scelta: il viaggiatore e storyteller Bonelli era anche dotato di un sano pragmatismo imprenditoriale milanese. Quel buonsenso che non lascia una gallina dalle uova d'oro come Tex finché continua a produrre denaro, o che preferisce costruire a tavolino i propri personaggi (a cominciare da Dylan dog) piuttosto che affidarsi al rischioso estro di uno dei propri artisti. Fu come scoprire che il signor Findus era un gran cuoco e gourmet raffinato, ma questo non bastava a rendere più saporiti i soliti "4 salti in padella " venduti dal supermercato

Tutto ciò che non sopporto del "canone del fumetto popolare italiano" è ancora lì dopo due generazioni abbondanti di Bonelli e migliaia di albi prodotti. Storie nate per intrattenere ragazzi adolescenti in un Italia con un solo canale televisivo (massimo due) con pochi soldi per andare al cinema e senza una produzione letteraria specificatamente pensata per loro. La povertà di mezzi e fonti d'ispirazione è diventata cifra stilistica: personaggi standard (protagonista, spalla del protagonista, macchietta comica, bella ragazza meglio se non fissa) 
Giogo grafico (è la cosa che più mi irrita) per cui i disegnatori devono violentarsi e sembrare tutti uguali, studi di personaggi che partono dagli attori famosi. Ambientazioni sempre mutuate da qualcosa o da qualcuno. Certe regole si saranno pure molto ammorbidite nel corso del tempo, ma per me è ancora un insulto all'arte, perché figlio di una sfiducia sia verso "il mezzo" fumetto sia verso i suoi lettori 

I clichè tanto cari a Tex e compagnia non si vedono più nei veri film dagli anni 60, le serie Tv, i comics americani hanno vissuto tre o quattro rivoluzioni stilistiche negli ultimi trent'anni. Per tacere delle evoluzioni tecnologiche, dell'evoluzione dei modi e dei tempi di godimento dell'entertainement negli ultimi 50 anni. Bonelli è ancora lì aggrappato all'effetto nostalgia, il cyberpunk su Nathan Never sembra ancora una trovata alla Flash gordon e Facebook in un numero di Julia ha il sapore della trovata esotica.

Insomma proprio perché so per certo che Sergio Bonelli era una persona eccezionale, e so per esperienza personale che li dentro ci lavorano decine di disegnatori e sceneggiatori bravissimi e innamorati del mezzo. Non capisco come la più grande azienda fumettisca italiana continui ad essere un altrettanto enorme spreco di potenzialità

venerdì 10 gennaio 2014

Non capisco i bonelliani-- Parte 1

Non capisco i Bonelliani. Ho sempre pensato che i fan delle testate Bonelli fossero una tribù a parte, non conciliabile con il resto del fandom fumettistico italiano.
Una convinzione che ha radici antiche, risale ai primi anni 90,quando le fiere del fumetto erano poche (Lucca ed Expocartoon di Roma) e molto meno frequentate di adesso.
Noi eravamo i barbari, la linfa nuova portati dai manga e dai comics ultracolorati stile Image. Loro erano i “vecchi”, li vedevi porsi ordinati in lunghe file indiane davanti allo stand Bonelli per uno schizzo o una stretta di mano con i disegnatori di turno.
Tanto erano silenziosi, tanto noi rumorosi con le nostre sigle e parodie. I loro eroi vivevano in un bianco e nero statico fatto di personaggi in posa e primi piani, nel nostro mondo tutto era coloratissimo e "animato" di luci fiammeggianti e filtri photoshop (nel peggiore dei casi retinati fino all’inverosimile).

Il bonelliano discettava di tavole, interpretazioni grafiche e riferimenti a oscuri film degli anni 50. Il top delle nostre discussioni era se Ranma avrebbe potuto battere Goku o se (per gli americanofili) Sara Pezzini era più o meno t*****bile di Caitlin Fairchild. Altro spartiacque era il movente per cui ci trovavamo tutti in fiera. La fila e il disegno occupavano tre quarti del loro tempo, qualche chiacchiera, forse uno sguardo agli stand degli antiquari e tutto finiva li.
I giovani neanche li guardavano i fumetti (si trovavano comodamente in fumetteria la settimana dopo, dove i bonelliani non avevano bisogno di entrare). L’occasione unica erano poster, magliette, cd e tutto quanto si poteva importare da Giappone e Stati Uniti.

Vivevamo la passione in modo diverso, i mangofili a malapena sapevano chi fossero Dylan Dog o Nathan Never, altri come Tex, Mister No o Nick raider erano lasciati senza rimpianti a padri, fratelli maggiori e cugini grandi. Ciò che mi dava la sicurezza che non ci saremmo mai mischiati era il modo in cui loro si approcciavamo a fumetti e agli autori. I Bonelliani erano lì a portata: Stano, Casertano, Serra, Roi (tutti nomi che ci dicevano poco), ma non erano oggetto dell’idolatria fanatica di cui eravamo capaci noi per l’unico autore l’anno che cadeva dalle parti di Lucca. Gli altri, mostri sacri come Rumiko Takahashi, Toriyama, Adachi, Otomo, Shirow, Nagai erano a malapena conosciuti via foto, ma trattati come fossero nostri vicini di casa

Eppure per il mondo esterno, i bonelliani erano "gli appassionati di fumetti": quegli albi li trovavi, saltuariamente, anche nelle librerie "dei grandi" e chi li comprava non doveva rassicurare madri e zie sul fatto che non ci fossero perversioni pornografiche o immagini violente e traumatizzanti.

Ma non ci importava. Noi avevamo il fuoco della passione, loro l'aplomb degli "spettatori". E non avevano niente che potessimo invidiare.